Alla destra del Faraone sedeva la Grande Regina Consorte e al suo fianco avevano preso posto le altre Spose Reali e le loro figlie; quattro posti mi separavano da Meritre: quello di Maritammon, Nefrure, Iter e sua madre.
Il principe erede Amenopeth sedeva alla sinistra del Faraone e gli altri principi venivano dopo; seguivano gli ospiti. Io venni a trovarmi di fronte al principe Hiram di Biblos.
I membri della famiglia reale e i suoi ospiti più illustri occupavano tutti seggi di squisita fattura, splendidi oggetti di legno intagliato, stuccato o dipinto, provvisti di alti schienali e braccioli d’appoggio. Nessuno, però, eguagliava in dimensioni e preziosità quello del Faraone.
Nobili, dignitari e ambasciatori, occupavano sedili di legno con più modeste decorazioni. Erano raccolti intorno a tavole di più ridotte dimensioni, a tre o quattro gambe collegate da traverse di traliccio, preziose nella fattura e nelle decorazioni. Tavoli e sedie rivelavano le doti d’eccezionale bravura dei nostri artisti, tanto apprezzati anche nei Paesi stranieri.
Mirhinhor, l’addetto alle Cerimonie di corte, aveva fatto distribuire ad ogni commensale un minuscolo pezzo di lino con cui pulirsi le mani: una moda proveniente dalla raffinata corte di Babilonia, aveva spiegato.
Mirinhor era un uomo molto importante. Godeva d’una posizione di prestigio e, fra tutti i dignitari, escluso il Visir e il Gran Sacerdote, era quello più vicino al Faraone.
Grosso e ben pasciuto, il corpo voluminoso dichiarava, senza ombra di dubbio, la sua propensione per creme di latte, dolciumi e grasso d’oca. Riusciva a portare quella pinguedine con tale allegrezza e noncuranza da guadagnarsi le simpatie di tutti. Era sempre in movimento, nonostante la mole; su e giù per l’immensa sala, dava ordini qua e là e ogni cosa filava a meraviglia.
Per organizzare quel sontuoso banchetto di corte, da ben due mesi aveva mobilitato tutti i servi e tutti quelli che lavoravano nelle cucine e nei magazzini, ma alla fine tutto era risultato perfetto, pulito e profumato. Nei giardini come all’interno delle sale. Molto attento a mantenere una reputazione che si era guadagnato nel tempo, soprattutto agli occhi della Regina, Mirinhor svolgeva il suo compito con diligenza ed era severo con quelli che lo assistevano e servivano non più che con se stesso, perciò godeva anche di fama d’uomo giusto.
Ad un suo cenno un gruppo di graziose ragazze cominciò ad aggirarsi tra le tavole distribuendo ghirlande di fiori, frutti di melograno e coni profumati.
Il principe di Biblos, e così i suoi compagni, accettò con un sorriso i fiori e i melograni, ma si mostrò un po’ perplesso con il cono di cera profumata. Ciò nondimeno, quando gli fu spiegato quale sollievo sarebbe stato contro la calura della stagione, accondiscese a che l’ancella glielo posasse sulla testa, così come avevano fatto i principi egiziani e i cortigiani.
Il principe erede Amenopeth sedeva alla sinistra del Faraone e gli altri principi venivano dopo; seguivano gli ospiti. Io venni a trovarmi di fronte al principe Hiram di Biblos.
I membri della famiglia reale e i suoi ospiti più illustri occupavano tutti seggi di squisita fattura, splendidi oggetti di legno intagliato, stuccato o dipinto, provvisti di alti schienali e braccioli d’appoggio. Nessuno, però, eguagliava in dimensioni e preziosità quello del Faraone.
Nobili, dignitari e ambasciatori, occupavano sedili di legno con più modeste decorazioni. Erano raccolti intorno a tavole di più ridotte dimensioni, a tre o quattro gambe collegate da traverse di traliccio, preziose nella fattura e nelle decorazioni. Tavoli e sedie rivelavano le doti d’eccezionale bravura dei nostri artisti, tanto apprezzati anche nei Paesi stranieri.
Mirhinhor, l’addetto alle Cerimonie di corte, aveva fatto distribuire ad ogni commensale un minuscolo pezzo di lino con cui pulirsi le mani: una moda proveniente dalla raffinata corte di Babilonia, aveva spiegato.
Mirinhor era un uomo molto importante. Godeva d’una posizione di prestigio e, fra tutti i dignitari, escluso il Visir e il Gran Sacerdote, era quello più vicino al Faraone.
Grosso e ben pasciuto, il corpo voluminoso dichiarava, senza ombra di dubbio, la sua propensione per creme di latte, dolciumi e grasso d’oca. Riusciva a portare quella pinguedine con tale allegrezza e noncuranza da guadagnarsi le simpatie di tutti. Era sempre in movimento, nonostante la mole; su e giù per l’immensa sala, dava ordini qua e là e ogni cosa filava a meraviglia.
Per organizzare quel sontuoso banchetto di corte, da ben due mesi aveva mobilitato tutti i servi e tutti quelli che lavoravano nelle cucine e nei magazzini, ma alla fine tutto era risultato perfetto, pulito e profumato. Nei giardini come all’interno delle sale. Molto attento a mantenere una reputazione che si era guadagnato nel tempo, soprattutto agli occhi della Regina, Mirinhor svolgeva il suo compito con diligenza ed era severo con quelli che lo assistevano e servivano non più che con se stesso, perciò godeva anche di fama d’uomo giusto.
Ad un suo cenno un gruppo di graziose ragazze cominciò ad aggirarsi tra le tavole distribuendo ghirlande di fiori, frutti di melograno e coni profumati.
Il principe di Biblos, e così i suoi compagni, accettò con un sorriso i fiori e i melograni, ma si mostrò un po’ perplesso con il cono di cera profumata. Ciò nondimeno, quando gli fu spiegato quale sollievo sarebbe stato contro la calura della stagione, accondiscese a che l’ancella glielo posasse sulla testa, così come avevano fatto i principi egiziani e i cortigiani.
Immediatamente dopo, nell’aprire le giare di vino appena giunte in sala, un profumo delicato e genuino andò espandendosi nell’aria.
Il Faraone sollevò la sua coppa, in cui Mirinhor in persona vi aveva versato del vino, e aprì il banchetto.
Un gruppo di danzatrici, intanto, seguito da flautiste e suonatrici di sistri, stavano facendo il loro ingresso; un arpist era già in attesa, inginocchiato al centro della sala accanto al suo strumento.
Era un ragazzo cieco, educato fin dalla nascita all’uso dello straordinario strumento caro ad Hathor.
Appoggiata all’alto schienale della sedia, io fissavo intensamente quell’arpa. A sette corde, ricca di preziosi ornamenti, riproduceva la sagoma di una sfinge.
Flauti e liuti avevano già invaso la sala con la loro melodia; danzatrici e cantanti, giovanissime, seminude e luccicanti di gioielli, cantavano e si muovevano al ritmo cadenzato del battito delle mani.
“Sii felice. Fai obliare al cuor la sorte umana.
Fa ciò che ti piace finché vivi
Versati mirra sui capelli, in fini lini avvolgiti,
con preziosi aromi profumati.
Passa felicemente il giorno e non affliggerti,
Tanto nessuno di coloro che se n’è andato, è mai tornato”
L’arpista cominciò a suonare; le sue dita accarezzavano lievi le sottilissime corde tese.
Un’armonia dolcissima andò diffondendosi nell’aria; s’insinuò
piano nel mio spirito e prese a condurne i battiti del cuore. Sottilmente. Dolcemente.
Ascoltavo estasiata, naufragando in uno scampolo di eternità; navigando in un mare di fantasia. Come una navicella abbandonata a se stessa.
D’improvviso la navicella ondeggiò e minacciò di inabissarsi: il mio sguardo aveva incontrato quello del principe Hiram. Annegai nei suoi occhi profondi e scuri; scuri più d’ogni cosa al mondo, più della notte stessa e del buio.
Anche lui mi fissava e i suoi occhi narravano con gli sguardi la storia di una vita intrepida, vissuta tra forti emozioni, pericoli superati e altri ancora da superare.
Taceva, come tutti gli altri, in attesa del permesso del Faraone, ma quando questo arrivò, le sue parole furono una poesia dedicata a me.
“Le piante del canale sono fiorite,
ma la tua bocca è un bocciolo profumato.
Le tue braccia sono giunchi
e la tua fronte è una trappola d’acacia.”
Mosse il capo e fece tintinnare i preziosi orecchini che gli pendevano dai lobi delle orecchie.
Io arrossii, ma non chinai lo sguardo.
Hiram indossava una tunica nera, come quando lo avevo visto scendere dalla nave, ma da vicino le sue spalle mi parvero più gagliarde e i muscoli, forgiati dalle mille fatiche, potenti e distribuiti con armonia. La faccia abbronzata non era effeminata e dipinta come quella dei cortigiani, ma bella di maschia bellezza. Ai miei occhi pareva così perfetto da sembrare una statua del laboratorio di Senmut, il più bravo riproduttore d’immagini.
Il Faraone lo guardò benevolo: il principe Hiram, figlio di Re, era il solo a poter rivolgere direttamente la parola ad un membro della famiglia reale.
Anche la Regina Meritre gli sorrise, poi lo invitò a raccontare qualcuna delle sue peripezie attraverso i mari e questo mi tolse dall’imbarazzo di una risposta.
Il principe accondiscese con un sorriso e si toccò i capelli trattenuti sulla fronte da una fascia di porpora, poi cominciò:
“Racconterò di Talo, il Servo di bronzo dalla testa di toro che Zeus donò a Minosse, re di Creta, come custode dell’isola. Questo Talo aveva un’unica vena che gli correva dal collo ai talloni, tappata da un chiodo di bronzo. Egli distruggeva i nemici di Minosse arroventando il suo corpo sul fuoco…”
Nel silenzio generale pendevano tutti dalle labbra del principe della Porpora: il calore del corpo e quello dell’atmosfera gioviale che si andava creando, avevano quasi sciolto il cono sul suo capo, profumandogli i capelli e l’abito di un aroma penetrante. Profumo di sandalo, forte e virile. Adatto a lui.
Guardai i miei fratelli: Amenopeth, che non aveva ancora aperto bocca, se non per divorare pietanze di sapore fenicio offerte in onore degli ospiti: antipasti in foglie di vite e minestre di lenticchie.
Osservava l’ospite con tanta attenzione che questi non poté non notarlo e sollevare verso di lui la coppa di vino di fichi: un altro dono della terra fenicia.
Che fosse geloso del suo ospite? Che invidiasse quella vita senza vincoli e piena di avventure? Non avrebbe dovuto avere ragioni per invidiarlo, pensavo, dal momento che il Faraone gli aveva messo al fianco il valoroso Amenemhab e posto al comando di una squadra di arcieri, cosa che avrebbe permesso anche a lui di girare per il mondo.
Anche la principessa Maritammon, sua promessa, seduta di fronte a lui, guardava l’ospite furtivamente ma con insistenza; Amenopeth era forse geloso?
Maritammon era tutta sorrisi, mentre divorava pietanze aromatizzate alla maggiorana e al timo.
Pure Amosis seguiva con molto interesse i racconti del nostro ospite. Fino a quel momento non aveva fatto che lamentarsi del largo shebju, il collare di pietre preziose, che gli pizzicava il collo e della nemes, il copricapo triangolare, che metteva per la prima volta e doveva pesargli in testa.
Nel suo sguardo erano venuti a navigare fantastiche navi e mostri marini. Io li “vedevo” e li “inseguivo”, con lui e “dentro” di lui. Nella sua mente.
Gli sorrisi mentre portavo alle labbra la coppa di dolce vino d’uva bianca, dono dell’ospite e unico, concesso da bere a noi ragazze. Un vinello traditore, in verità. Più di quello che le mogli dei servi del gineceo, ci portavano da bere di nascosto. In verità, neppure gli ospiti disdegnavano quel vino dolce più del miele e l’allegria aumentava ad ogni sorso.
Le grosse giare d’irep, il vino che solitamente giungeva sulla tavola del Faraone, provenivano dalle vigne reali del Delta. Per l’occasione, Mirinhor aveva fatto arrivare apposta dalla Siria le giare di cui i servi stavano spezzando i sigilli.
Contenevano shedeh, il vino più pregiato, fermentato al miele ed agli aromi esotici. Era stato travasato ben otto volte, prima di essere servito, così come dichiarava la scritta apposta sul tappo.
Oltre al vino, gli ospiti mostravano di gradire molto anche carne, pesce e verdure e le dita delle loro mani, che continuavano a leccarsi come bambini golosi, erano sempre unte d’adkh e merhet, burro e grasso di sesamo: i cuochi egiziani erano i più richiesti in tutte le corti straniere.
Iter, al mio fianco, assaporava deliziose focaccine ripiene di miele, uva passa e canditi, ma con gli occhi divorava l’ospite. Quali pensieri le passavano per la mente? Guardava il principe Hiram in maniera così sconveniente che persino sua madre le dette una gomitata.
Solo Nefrure, come imponeva la buona educazione, sedeva raccolta e dignitosa. Nefer invece, ancora troppo giovane per conformarsi all’etichetta di corte, era un allegro scroscio d’acqua e la guardavano tutti con indulgenza.
Gli ospiti, molti dei quali sfoggiavano belle barbe scure e ricciute, attendevano il permesso del Faraone per prendere la parola e guardavano un po’ stupiti, la barba finta del loro illustre ospite.
Forse ignoravano che un Faraone, in vita, non poteva portare una barba vera e che anch’egli aveva obblighi da rispettare: uno era quello di radersi due volte al giorno.
Ora il Faraone parlava con il principe Hiram. Insieme discutevano di navi, cantieri, marinai, ma soprattutto dell’imminente, l’ottava, spedizione militare nel Paese di Naharim.
Il Faraone gli aveva affidato il comando della flotta egiziana ferma nel Delta e pronta a salpare. I destini di molte genti erano legati a quella spedizione e il Faraone l’aveva organizzata in ogni dettaglio. Aveva fatto costruire lungo tutta la costa una linea di porti distanti un giorno di mare l’uno dall’altro e a Biblos aveva fissato il quartiere generale.
Intanto il banchetto volgeva lentamente al termine. I vassoi di carni e verdure erano semivuoti e così i cesti di frutta fresca o secca: fichi, uva e prugne, ma soprattutto melograni, il cui succo accendeva il sangue nelle vene.
Calici e coppe chiedevano ancora di essere riempiti. Pane, nessuno ne chiedeva più; qualche dolce al miele, alle carrube o all’uva secca.
Giunse anche il momento più atteso e il Faraone levò finalmente la coppa, l’ultima, in direzione di Hiram: il principe doveva indicare quella, tra le principesse reali, che gli ambasciatori di Biblos avevano scelto come sposa del loro sovrano.
Il Faraone sollevò la sua coppa, in cui Mirinhor in persona vi aveva versato del vino, e aprì il banchetto.
Un gruppo di danzatrici, intanto, seguito da flautiste e suonatrici di sistri, stavano facendo il loro ingresso; un arpist era già in attesa, inginocchiato al centro della sala accanto al suo strumento.
Era un ragazzo cieco, educato fin dalla nascita all’uso dello straordinario strumento caro ad Hathor.
Appoggiata all’alto schienale della sedia, io fissavo intensamente quell’arpa. A sette corde, ricca di preziosi ornamenti, riproduceva la sagoma di una sfinge.
Flauti e liuti avevano già invaso la sala con la loro melodia; danzatrici e cantanti, giovanissime, seminude e luccicanti di gioielli, cantavano e si muovevano al ritmo cadenzato del battito delle mani.
“Sii felice. Fai obliare al cuor la sorte umana.
Fa ciò che ti piace finché vivi
Versati mirra sui capelli, in fini lini avvolgiti,
con preziosi aromi profumati.
Passa felicemente il giorno e non affliggerti,
Tanto nessuno di coloro che se n’è andato, è mai tornato”
L’arpista cominciò a suonare; le sue dita accarezzavano lievi le sottilissime corde tese.
Un’armonia dolcissima andò diffondendosi nell’aria; s’insinuò
piano nel mio spirito e prese a condurne i battiti del cuore. Sottilmente. Dolcemente.
Ascoltavo estasiata, naufragando in uno scampolo di eternità; navigando in un mare di fantasia. Come una navicella abbandonata a se stessa.
D’improvviso la navicella ondeggiò e minacciò di inabissarsi: il mio sguardo aveva incontrato quello del principe Hiram. Annegai nei suoi occhi profondi e scuri; scuri più d’ogni cosa al mondo, più della notte stessa e del buio.
Anche lui mi fissava e i suoi occhi narravano con gli sguardi la storia di una vita intrepida, vissuta tra forti emozioni, pericoli superati e altri ancora da superare.
Taceva, come tutti gli altri, in attesa del permesso del Faraone, ma quando questo arrivò, le sue parole furono una poesia dedicata a me.
“Le piante del canale sono fiorite,
ma la tua bocca è un bocciolo profumato.
Le tue braccia sono giunchi
e la tua fronte è una trappola d’acacia.”
Mosse il capo e fece tintinnare i preziosi orecchini che gli pendevano dai lobi delle orecchie.
Io arrossii, ma non chinai lo sguardo.
Hiram indossava una tunica nera, come quando lo avevo visto scendere dalla nave, ma da vicino le sue spalle mi parvero più gagliarde e i muscoli, forgiati dalle mille fatiche, potenti e distribuiti con armonia. La faccia abbronzata non era effeminata e dipinta come quella dei cortigiani, ma bella di maschia bellezza. Ai miei occhi pareva così perfetto da sembrare una statua del laboratorio di Senmut, il più bravo riproduttore d’immagini.
Il Faraone lo guardò benevolo: il principe Hiram, figlio di Re, era il solo a poter rivolgere direttamente la parola ad un membro della famiglia reale.
Anche la Regina Meritre gli sorrise, poi lo invitò a raccontare qualcuna delle sue peripezie attraverso i mari e questo mi tolse dall’imbarazzo di una risposta.
Il principe accondiscese con un sorriso e si toccò i capelli trattenuti sulla fronte da una fascia di porpora, poi cominciò:
“Racconterò di Talo, il Servo di bronzo dalla testa di toro che Zeus donò a Minosse, re di Creta, come custode dell’isola. Questo Talo aveva un’unica vena che gli correva dal collo ai talloni, tappata da un chiodo di bronzo. Egli distruggeva i nemici di Minosse arroventando il suo corpo sul fuoco…”
Nel silenzio generale pendevano tutti dalle labbra del principe della Porpora: il calore del corpo e quello dell’atmosfera gioviale che si andava creando, avevano quasi sciolto il cono sul suo capo, profumandogli i capelli e l’abito di un aroma penetrante. Profumo di sandalo, forte e virile. Adatto a lui.
Guardai i miei fratelli: Amenopeth, che non aveva ancora aperto bocca, se non per divorare pietanze di sapore fenicio offerte in onore degli ospiti: antipasti in foglie di vite e minestre di lenticchie.
Osservava l’ospite con tanta attenzione che questi non poté non notarlo e sollevare verso di lui la coppa di vino di fichi: un altro dono della terra fenicia.
Che fosse geloso del suo ospite? Che invidiasse quella vita senza vincoli e piena di avventure? Non avrebbe dovuto avere ragioni per invidiarlo, pensavo, dal momento che il Faraone gli aveva messo al fianco il valoroso Amenemhab e posto al comando di una squadra di arcieri, cosa che avrebbe permesso anche a lui di girare per il mondo.
Anche la principessa Maritammon, sua promessa, seduta di fronte a lui, guardava l’ospite furtivamente ma con insistenza; Amenopeth era forse geloso?
Maritammon era tutta sorrisi, mentre divorava pietanze aromatizzate alla maggiorana e al timo.
Pure Amosis seguiva con molto interesse i racconti del nostro ospite. Fino a quel momento non aveva fatto che lamentarsi del largo shebju, il collare di pietre preziose, che gli pizzicava il collo e della nemes, il copricapo triangolare, che metteva per la prima volta e doveva pesargli in testa.
Nel suo sguardo erano venuti a navigare fantastiche navi e mostri marini. Io li “vedevo” e li “inseguivo”, con lui e “dentro” di lui. Nella sua mente.
Gli sorrisi mentre portavo alle labbra la coppa di dolce vino d’uva bianca, dono dell’ospite e unico, concesso da bere a noi ragazze. Un vinello traditore, in verità. Più di quello che le mogli dei servi del gineceo, ci portavano da bere di nascosto. In verità, neppure gli ospiti disdegnavano quel vino dolce più del miele e l’allegria aumentava ad ogni sorso.
Le grosse giare d’irep, il vino che solitamente giungeva sulla tavola del Faraone, provenivano dalle vigne reali del Delta. Per l’occasione, Mirinhor aveva fatto arrivare apposta dalla Siria le giare di cui i servi stavano spezzando i sigilli.
Contenevano shedeh, il vino più pregiato, fermentato al miele ed agli aromi esotici. Era stato travasato ben otto volte, prima di essere servito, così come dichiarava la scritta apposta sul tappo.
Oltre al vino, gli ospiti mostravano di gradire molto anche carne, pesce e verdure e le dita delle loro mani, che continuavano a leccarsi come bambini golosi, erano sempre unte d’adkh e merhet, burro e grasso di sesamo: i cuochi egiziani erano i più richiesti in tutte le corti straniere.
Iter, al mio fianco, assaporava deliziose focaccine ripiene di miele, uva passa e canditi, ma con gli occhi divorava l’ospite. Quali pensieri le passavano per la mente? Guardava il principe Hiram in maniera così sconveniente che persino sua madre le dette una gomitata.
Solo Nefrure, come imponeva la buona educazione, sedeva raccolta e dignitosa. Nefer invece, ancora troppo giovane per conformarsi all’etichetta di corte, era un allegro scroscio d’acqua e la guardavano tutti con indulgenza.
Gli ospiti, molti dei quali sfoggiavano belle barbe scure e ricciute, attendevano il permesso del Faraone per prendere la parola e guardavano un po’ stupiti, la barba finta del loro illustre ospite.
Forse ignoravano che un Faraone, in vita, non poteva portare una barba vera e che anch’egli aveva obblighi da rispettare: uno era quello di radersi due volte al giorno.
Ora il Faraone parlava con il principe Hiram. Insieme discutevano di navi, cantieri, marinai, ma soprattutto dell’imminente, l’ottava, spedizione militare nel Paese di Naharim.
Il Faraone gli aveva affidato il comando della flotta egiziana ferma nel Delta e pronta a salpare. I destini di molte genti erano legati a quella spedizione e il Faraone l’aveva organizzata in ogni dettaglio. Aveva fatto costruire lungo tutta la costa una linea di porti distanti un giorno di mare l’uno dall’altro e a Biblos aveva fissato il quartiere generale.
Intanto il banchetto volgeva lentamente al termine. I vassoi di carni e verdure erano semivuoti e così i cesti di frutta fresca o secca: fichi, uva e prugne, ma soprattutto melograni, il cui succo accendeva il sangue nelle vene.
Calici e coppe chiedevano ancora di essere riempiti. Pane, nessuno ne chiedeva più; qualche dolce al miele, alle carrube o all’uva secca.
Giunse anche il momento più atteso e il Faraone levò finalmente la coppa, l’ultima, in direzione di Hiram: il principe doveva indicare quella, tra le principesse reali, che gli ambasciatori di Biblos avevano scelto come sposa del loro sovrano.
(continua)
brano tratto da "A G A R" di Maria PACE
su AMAZON
o AUTOGRAFATO direttamente presso l'Autrice
mariapace2010@gmail.com
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