Arrivai nella terra dei Faraoni con la piena
del Nilo. Il mio primo vagito fu un urlo di gloria: ero convinta di aver
conferito col mio arrivo, dignità e onore ad un giorno altrimenti destinato
all'oblio. Non immaginavo, ahimè, che già al primo appuntamento con la vita
giungevo seconda: quello stesso giorno nel Mammisi
del Tempio di Ammon, assistita dalle ancelle e dalle Divinità Protettrici della
Maternità, la Grande Consorte Reale aveva dato alla luce l'erede al trono.
La principessa Menhet di Ugarit, mia madre, quarta
moglie del Sovrano, ancora stremata dalla febbre e dallo strazio del parto,
considerò il mio arrivo come la più grande delle benedizioni; nel suo ingenuo
candore volle per me un nome augurale: Agar Ank Hathor, che significa Gioia
generata da Hathor. Con quel nome sperava di guidare sul mio capo la
benevolenza di una Dea a lei straniera.
Un nome, dicono i sacerdoti, è lo scrigno
che custodisce il carattere di una persona. Un nome, dicono, è l’impronta
destinata a guidare una vita e procura a chi lo porta ciò che promette. Il mio
nome prometteva gioia, ma io non ho mai creduto troppo a quel che dicono i
sacerdoti.
Mia madre invece sì! Eppure, nonostante le
sue amorevoli intenzioni, mai nome fu meno profetico di quello. Lei, però, non
lo sapeva. Continuava a guardarmi con materno compiacimento mentre la levatrice
reale mi scuoteva e percuoteva quella parte poco nobile del corpo, senza
rispetto per la mia dignità; quando mi deposero sul suo morbido grembo, io
cominciai a piangere, a muovermi e a sgambettare in cerca di cibo. A lungo
continuai ad inondare il soffice seno della piccola principessa siriana; così
come fa il Nilo con la terra d'Egitto.
Le mani impietose della nutrice, infine,
vennero ad esiliarmi da quel porto sicuro per attaccarmi con la bocca ai
capezzoli del suo seno; quando fui sazia, mi mise nella culla di giunchi che la
principessa aveva intrecciato nei lunghi mesi dell'attesa.
Si trattava di intrecci e nodi particolari,
un ordito di steli e giunchi di rara bellezza e bravura: nodi da
pescatore. Solo la gente della Valle
del Cedro, che si stende sotto la collina di Shanza, in Siria, conosce quel
modo di annodare giunchi.
Ne sono assai gelosi e dicono che il dio Baal in persona abbia insegnato loro
l'arte di quell'intreccio.
"La magia della Grande Signora è assai
potente. - Sechet, l'ancella nubiana, si chinò sulla culla per appendermi al
collo i simboli della mia dignità: Sechem e Menit,
Sistro e Collana della Vita, emblemi della Dea a cui ero stata votata - Già! -
ripeté sistemandomeli con cura - Nel gineceo del nostro Signore, si continuano
a generare femmine e mai un maschio. Ma Hathor la Splendente proteggerà la
principessa da ogni insidia."
"La tua bocca è come un pollaio
attaccato da una volpe, stupida ragazza! Tienila chiusa o, per il Sistro di
Hathor, lo farà qualcuno." la rimproverò la nutrice che mia madre aveva
condotto con sé dalla Siria, ma anche lei doveva nutrire gli stessi timori di
Sechet, poiché si affrettò a rafforzare la protezione di Hathor con altri
amuleti: con l’udjat e la nefer,
capaci di trasmettere felicità, salute e fortuna.
La gente del Nilo ripone grande fiducia
negli amuleti e nelle magiche parole incise sulle loro superfici: le hekau,
che hanno il potere di tenere lontano nemici visibili ed invisibili.
Dalla Siria la principessa Menhet aveva
portato anche un ricco corredo nuziale.
Con la mia nascita, molti di quei doni avrebbero preso la via del Tempio
di Ammon e di quello di Hathor.
Un’unione, quella della principessa
siriana e del principe di Tebe, nata per soddisfare disegni di altri: di
Thutmosis II, il padre di mio padre, e di Shuball di Ugarit, il padre di mia
madre. I due avevano apposto i loro sigilli sul Sacro Papiro, ancor prima che la principessa
lasciasse il grembo materno: uno stratagemma ingenuo per
stringere un’alleanza precaria; appena gli egiziani voltavano le spalle, quei principi barbari,
riprendevano le armi.
Per di più i doni nuziali erano giunti
dimezzati a Tebe: Shuballa accusava Thutmosis degli attacchi dei predoni alla
carovana e questi accusava l’altro d’avarizia. Con queste nubi ad offuscare il suo cielo, non sarebbe stato
facile per mia madre condurre una vita serena a Tebe.
Al principe Thut, però, s'era subito infiammato
il cuore alla vista delle gote di rose
e degli strali luminosi
della principessa siriana. E mia madre ricambiava l'affetto dello sposo con
molta sollecitudine ed aspettava ansiosa la sua visita.
Non preceduta dal sussiego protocollare, la
visita del Faraone portò scompiglio nel gineceo reale. Molte donne si
lasciarono sorprendere in abbigliamenti ed atteggiamenti non conformi alla
dignità del visitatore e un fuggi-fuggi generale rese deserte stanze e
corridoi.
Sembrava, però, che avessero lasciato sulle
pareti le loro figure, poiché Minmose, il riproduttore reale d’immagini, nel
dipingere scene di vita quotidiana, le aveva maliziosamente rubate alla realtà.
Thutmosis, però, era lì solo per me e mia madre e
la visita fu strettamente privata. La figura imponente, i contorni energici del
volto, gli alti zigomi e il mento arrotondato sotto la pelle abbronzata, mio
padre avanzò nella stanza a lunghi passi e con un sorriso smagliante sulle
labbra.
"Piccola sorella del mio cuore."
disse chinandosi a sfiorarle le labbra piene di grazia; l'ombra che aveva
appannato il verde smalto degli occhi di lei parve allontanarsi.
"Forse il mio Signore desiderava un
figlio maschio da condurre con sé nelle battute di caccia." disse la
principessa, ma lui:
"Ammom-Ra è sceso sopra di noi."
la rassicurò sorridendo.
Se anche avesse desiderato un maschio, in
verità, mio padre non aveva motivo di lagnarsi: in questo Paese le figlie
femmine sono preziose quanto e forse più dei maschi. Qui le figlie femmine sono
moneta di scambio
nei Trattati di Alleanza con altri Sovrani e… ma perché parlare di cose che
dovrò riferire poi?
Dicevo che Thutmosis appariva soddisfatto;
l'aureo usekh,
luccicanti pietre preziose tagliate a forma di gocce e tenute insieme da una
maglia d'oro, splendeva intorno al suo poderoso collo. Lui se lo tolse e lo
pose sul seno di mia madre poi si accostò alla culla a fianco del letto. Fu
quella la prima volta in cui mio padre ed io ci incontrammo.
"Questa bambina, gioia del mio sguardo,
- disse convergendo su di me i penetranti occhi scuri - sarà la dolce colomba
che allieterà i miei giorni."
"Sono grata al mio Signore per la sua
benevolenza. - la principessa tentò di sollevarsi, ma era debole e ricadde sui
cuscini - Sono anche grata al mio Signore per la sua presenza qui."
“Luce dei miei occhi. - esclamò lui
girandosi a guardarla - Non potevo mancare di essere accanto alla mia piccola
sposa in questo felice giorno."
Sorrideva, mentre giocherellava con le mie
minuscole dita serrate intorno al suo indice, attirate dagli anelli; i simboli
della dignità regale gli pendevano dal petto.
"La regina Meritre, la Grande Sposa
Reale..." cominciò mia madre.
Mio padre si staccò da me con dolce fermezza
per tornare al suo capezzale.
"Anche Meritre ha scelto questo giorno
per rendermi padre di un forte torello. - il suo sorriso grondava compiacimento
e orgoglio paterno - Amenopeth sarà il mio successore, quando verrà per me il
tempo stabilito dagli Dei. Questo è giorno di gioia in terra d'Egitto. Nei
Templi i sacerdoti stanno sacrificando e officiando agli Dei. Il mio erede, il
Falco caro al Figlio di Usir..."
"Il Falco e la Colomba!" mia madre
lo interruppe con un sospiro e l'inquietudine tornò ad offuscare la limpidezza
dei suoi occhi verdi.
Mio padre comprese e la rassicurò con una
carezza.
"Non temere per tua figlia, dolce gazzella.
Fin quando l'alito della vita resterà nelle mie narici, nessuno le farà mai del
male."
Mia madre, però, conosceva assai bene le
insidie nascoste dietro ogni angolo del gineceo. Dietro i sorrisi della Grande
Consorte Reale e dietro quelli di ognuna delle Spose Reali e delle concubine e
riteneva una fortuna per me essere femmina: al gineceo non era ancora nato
nessun figlio maschio!
In realtà, negli ultimi tempi il Faraone era
sempre lontano da Tebe, impegnato a difendere le frontiere del Delta
dall'avanzata di popoli nemici. Io non ricordo di averlo mai visto che in abiti
da guerra, se non in occasioni speciali come quella visita.
"Questo è giorno di letizia, mio dolce
fior di loto. - mio padre interruppe quelli che dovevano essere i pensieri
laceranti di mia madre - Perché tanta inquietudine nei tuoi occhi?"
"Perché la Barca di Ammon veleggia su
queste stanze."
"Oh no! - proruppe lui con enfasi - No,
Luce dei miei occhi. Quella Barca veleggia lontano da qui."
Si chinò a baciarla sulla fronte. Per un
attimo, negli occhi di mia madre tornò a brillare quel vivo smalto verde, ma
poi:
"Vedo già il nocchiero di quella Barca
e mi fa cenno di seguirlo."
"Per il Sacro Occhio di Horo! No! Io
gli offrirò sacrifici ed olocausti, se metterà altrove la prua di quella Barca.
Io..."
"Neppure il Faraone può mercanteggiare
con quel nocchiero. - sorrise lei con dolce malinconia - Egli è già qui e io
non potrò far conoscere alla mia bambina le dolci colline di Ugarit."
"Non temere, mio bene. - mentire era
inutile. C'era tanta dignità in lei, che mentire con la pietà poteva apparire
un insulto al suo coraggio - Tutto quello che occorre farò per lei come se a
farlo fosse sua madre."
Quasi avessi percepito la solenne
drammaticità del momento, io ricominciai a piangere ed urlare dalla culla; mio
padre batté le mani e alla nutrice comparsa sull'uscio fece cenno verso di me.
"Vedo un barbaglio sopra la culla… - la
voce di mia madre era sempre più flebile - Vedo una folgore crepitare sul suo
capo... Proteggila, ti prego. Da più parti si leveranno contro di lei..."
Anubi ululò in quel mentre
nella stanza e, senza neppure consentirle di terminare la frase, spense la sua
vita.